E così la signora Ines ci ha lasciati, ha scelto di chiudere con questa vita in casa di riposo dov’era ospitata da alcuni anni. Ma vorrei lasciare le ovvietà sul suo ultimo tempo per parlare di Ines la padrona del locale pubblico di Colfrancui, una osteria-trattoria con annesso bocciodromo.
Ines era nata quando la Prima Guerra Mondiale era appena finita e lei crebbe nel tempo della penuria, del latifondo e dei repetini, della dittatura, del servizio militare, delle guerre che si portavano via i giovani e qualche volta (ma non sempre) li lasciavano tornare a casa, dell’emigrazione che toccava ogni famiglia. Decenni di cui si immagina facilmente la durezza. Chi scrive non sa a quando risale la sua osteria; probabilmente quando giravano carri e calessi: lo prova la s-sciona, un anello di ferro infisso nel muro esterno, cui legare buoi, cavalli o asini più o meno come i cow boys facevano con il palo davanti al saloon. Che uno poi si chiede come facessero quei cavalli a non scappare. Tornando all’osteria va detto che c’è stato un tempo in cui a Colfrancui ce n’erano 3 o 4, insieme a casolini, a piccoli laboratori di sartoria o di calzolaio, a officine del falegname o del fabbro. C’era chi faceva il norcino, il pescatore, il mediatore, il cacciatore…. Un altro mondo. Sicuramente l’osteria doveva essere un punto di riferimento per gente che lavorava duro con la terra, con la ghiaia, con il legno (pochi ricordano oggi quel lavoro sconciante che era spaccare le radici e i ciocchi degli alberi con ascia, mazza e cunei). Per gente che faceva questi lavori un piatto caldo o un bicchiere di vino fresco dovevano essere una cosa favolosa. Io entrai in quell’osteria con mio padre intorno al 1960, forse prima. Molte le sigarette o i toscani accesi: fumava anche chi non aveva la sigaretta in bocca. Si beveva birra, vino, caffè e poco altro: chinotto, spuma, acqua e menta… Sulle scansie bottiglie di Carpano, Martini, Marsala, Strega, Ferrochina, Ramazzotti… Le caramelle erano Golia, Charms, Dufour… Niente liquori stranieri.
Dietro l’osteria c’erano i campi di bocce, ben tenuti e assai apprezzati. Vi si tenevano anche gare ufficiali, con i giudici in camicia bianca e coi i giocatori che arrivavano da lontano con la millecento. Gare che cominciavano la domenica mattina presto e terminavano la sera. Su questo mondo maschile signoreggiava la Ines, energica e sbrigativa dall’alba alla sera tardi, per ricominciare il giorno dopo. Ovviamente si giocava alle carte, molto di domenica, di sera o con il maltempo, poco o niente di pomeriggio. Il gioco aveva forti componenti rituali: silenzi tesi intervallati da bestemmioni, da frasi trionfali o irose. Questo quando non c’era il parroco seduto a giocare. L’osteria era anche punto di incontro per affari, scambi di notizie e di storie più o meno vere, ma questo ci porterebbe troppo fuori strada.
Era caratteristico di Ines intervenire (non sempre) al momento di fare le squadre per la partita a carte per combinare i giocatori in modo che le parti fossero equilibrate. Altre volte sollecitava a sedersi i giocatori neghittosi, impigriti dal calduccio o distratti dai discorsi di politica o di sport (ciclismo, motociclismo, pugilato, calcio…) Talvolta, a tarda sera, chiamava una specie di ultimo giro e avvisava che stava per chiudere. Forse, nonostante i tesori di energia che metteva nel suo lavoro, sentiva ogni tanto un po’ di umana stanchezza. Si potrebbe continuare, a lungo. Una vita vissuta con coraggio, necessario per affrontare gli impegni di un lavoro non semplice impastato con gli affetti, le gioie e i dolori del privato. Se è permesso, un po’ un simbolo di forza e di dignità al femminile (l’8 marzo è passato da poco). Con il passar del tempo le strade venivano asfaltate e percorse da automezzi sempre più fitti e veloci. Non si poteva più giocarci a pallone gridando “macchina” quando ne spuntava una dalla curva e fermarsi per riprendere subito dopo.
Cambiava l’economia: prima i contadini vendevano carne (vitelli, pollami…), latte, uova, frumento e mais, vino e uva, legna, gallette da seta, lana… Oggi è il contrario. L’acqua veniva dai pozzi e dalle fontane e non da questa o quella montagna altissima e purissima. Stavano arrivando i tubetti di conserva, i dadi da brodo e la carne Simmental, i bucaneve Doria, Tide o Omo. Pur nelle mutate condizioni la Ines continuava a gestire il suo locale sempre più bar e sempre meno trattoria-osteria-bocciodromo con il piglio usuale, fino a quando giunse il momento di chiudere bottega. Immagino che insieme all’ inevitabile tristezza abbia anche in quell’occasione tirato fuori la sua capacità di voltare pagina e di guardare avanti. Non facciamola lunga. A me e ad altri che hanno conosciuto Ines e il suo locale piace pensare che, nel luogo dove si trova adesso, abbia incontrato molti suoi clienti che hanno un’infinità di tempo da trascorrere. Mi piace pensare che si sia messa a disporli in squadre armoniose e a dare le carte. E che Titta, Secondo, Nando, Berto, Nane, Germano, Jijo, Angelo, Piero, il Moretto, il Caporal, Toni, Bepi, e gli altri la ascoltino, come quando erano “da Scoss”. Con (almeno) una differenza: non si bestemmia.